L'antigastronomo

L’innovativo globale

Immagine di Roberto Perini, La valle della ricchezza

Ogni alimento, liquido o solido che sia, è indicatore di un’area di produzione determinata che tutti noi amiamo credere originaria. Le differenti modalità di preparazione e di consumo vengono vissute individualmente come fattori peculiari di identità e, quando condivise con altri, diventano uno strumento per segnare o vantare collettivamente la propria diversità su comunità e popolazioni con differenti abitudini e stili alimentari.

Per questo i greci potevano dare di barbari ai bevitori di latte, i romani a quelli che al vino preferivano la birra e il cavalier Benito Mussolini proclamare, come era nel suo stile, che “Chi parla del vino parla della civiltà della razza bianca”.

Con l’esotismo di massa contemporaneo, cioè con la possibilità che oggi c’è data di consumare (e produrre) qualunque alimento quasi dovunque e in qualunque stagione, questi fattori dovrebbero aver perso molto della loro forza discriminante. E invece no, perché dietro ogni cibo o bevanda continua ad agire un modello culturale, un sistema di sapere idealizzato che sentiamo nostro e di cui temiamo la perdita; dunque l’arrivo di un prodotto o di un modello “altro”, esotico, continua a produrre in noi fenomeni di spaesamento e l’innovazione la guardiamo sempre come una rivoluzione, un sovvertimento di quei valori, una minaccia al nostro senso d’identità e di appartenenza. 

Noi non sappiamo più chi siamo e la nostra casa non ci sembra essere più la nostra casa.

A difesa di questo patrimonio, quelli per loro conto già insicuri della propria identità si trincerano dietro i muri della tradizione, che intendono come mantenimento di quell’origine e di quegli usi. Tutto questo con buona pace degli studiosi che hanno decretato che la storia come luogo di produzione dell’origine è una mistificazione, e che la tradizione altro non è che il frutto più o meno duraturo, ma sempre provvisorio, di una innovazione.

Da tempo si discute di vitigni e di vini innovativi, e da una parte si biasimano e dall’altra si premiano uvaggi eterodossi, macerazioni e concentrazioni eccessive, passaggi in legno spudorati. Ma a tutte queste operazioni in vigna e in cantina è sotteso un legittimo progetto marketing oriented, che è quello di conformarsi a un modello dominante premiato dal mercato: alcol, polpa e legno per vini morbidi e di corpo pieno, che richiamano il frutto, i piccoli frutti, la vaniglia, la confettura e via dicendo.

Come giudicare l’impegno di tutta una nuova generazione di enologi, che gira per le aziende a distribuire consulenze cambiando i lambruschi in amaroni, stravolgendo tipicità date per acquisite e sollevando le indignate proteste di menti e palati educati a riconoscere il vino “come si faceva una volta”?

Giudicandoli secondo le leggi del mercato, certo, che da sempre hanno determinato la nascita di innovazioni, come si diceva, più o meno durature e fra le quali alcune hanno avuto la fortuna di diventare “tradizione”.

Senza andare troppo indietro nel tempo, nel campo enoico gli esempi a sostegno di questa affermazione sono numerosi. 

Si sa che a “inventarsi” il Marsala fu un inglese, John Woodhouse, che nel 1773 pensò bene di sostituire il costoso Madera molto apprezzato in patria con un vino più economico che gli somigliasse. Nacque così il “vino all’uso di Madera”, come gli inglesi continueranno a chiamare il Marsala almeno fino al 1806; mentre, perché siano gli italiani a chiamarlo con il suo nome proprio bisognerà attendere ancora 10 anni.

Il Marsala non fu certo il primo vino italiano nato per esigenze di mercato, ebbe soltanto più fortuna di altri.

All’Esposizione universale di Parigi del 1889, lo Zucco, un vino innovativo nato da poco più di dieci anni, fu premiato con Gran Diploma d’onore. Lo Zucco prendeva il nome da una tenuta nelle campagne di Partinico di proprietà del duca D’Aumale, e la stampa dell’epoca lo definì “un prodotto italiano ottenuto mediante processi francesi”. Da moderno imprenditore, il duca fu tra i primi in Sicilia a produrre vini che allora si chiamavano senza reticenze “vini d’imitazione”. 

Nelle sue vaste proprietà aveva impiantato vitigni Pedro Ximenes e palomino per produrre lo Xeres, sauvignon da cui otteneva il Sauterne, e riesling renano per un vino del Reno… siciliano. Vini ai quali il mercato, a differenza del marsala, ha negato una posterità, un futuro. 

Sul finire del secolo imperava il modello francese, e quella di “rifare” i vini francesi da noi era una moda abbastanza diffusa. Così in Sicilia come nell’isola d’Elba si produceva ad esempio Champagne in quantità significative. Agli inizi del Novecento sulle colline di Bagno a Ripoli, vicino Firenze, nelle campagne di Verona, in quelle di Conegliano e a Tortona, in Piemonte, si producevano dei tipi di vino bianco secco, “uso Chablis”, dei quali veniva detto con soddisfazione che non si distinguevano da quelli originari d’oltralpe.

Di queste innovazioni certamente qualcosa è rimasto, l’applicazione di metodi francesi nel produrli avrà portato un travaso di esperienze che non è andato perso del tutto e che ha permesso la nascita di vini “tradizionali”, fatti però diversamente dal passato.

Oggi tuttavia la situazione è diversa. Il processo in atto, è noto, è quello di una integrazione alimentare a livello planetario, connessa con la standardizzazione mondiale dei cibi e delle bevande e del loro modo di consumarli. Tutto questo non in un confronto di identità diverse, un misurarsi per riconoscere e scambiarsi la propria diversità fino a creare una felice ibridazione fra indigeno ed esotico, ma come una sovrapposizione a un modello locale da parte di uno solo, progettato, prodotto, distribuito e comunicato da una parte del pianeta che ha il potere economico e politico per estendere, fino a cancellarlo, ogni altro modello esistente al mondo.

Inoltre, con i prodotti emigrano anche i modelli culturali, e il rischio di un’odiosa prevaricazione omogeneizzante è assolutamente reale. Detto tutto in un fiato, il pericolo vero è un modello unico, identico per tutti.

Questa globalizzazione del gusto ha tutta l’aria dunque di una rivoluzione con quei connotati di fatale irreversibilità che la rendono diversa dal passato. 

Oggi l’innovazione è diventata globale, una rete planetaria dalla quale uscirne per un produttore equivale a perdere competitività e avviarsi al fallimento.

Detto questo, come non è ragionevole concordare con il cardinale Biffi quando dice che aprire indiscriminatamente all’immigrazione musulmana sarebbe fatale per la già incerta e periclitante fede degli italiani, ugualmente non si può condividere la posizione di chi abbraccia acriticamente l’innovazione senza considerare la qualità storica diversa che la distingue da quelle avvenute nel passato.

In ogni caso è evidente che l’innovazione da temere non è quella che tanto allarma l’alto prelato, preoccupato della fede del suo gregge; che in questo campo, vivaddio, ha sempre abusato del libero arbitrio, giudicando i propri peccati tutti veniali.

Diciamolo, quello di partire dalle richieste del mercato per creare un prodotto non è un’invenzione della società post-industriale statunitense, e l’idea che ci sia stata un’età dell’oro in cui la produzione fosse orientata al prodotto, oggi, in cui si assiste alla imposizione di un modello unico, andrebbe ridiscussa. È dunque il prodotto a creare il mercato o è questo a deciderne la natura e le modalità di produzione?

Vogliamo concludere con una testimonianza edificante e forse istruttiva.

Una decina d’anni fa, in una zona d’Italia assolutamente priva di una qualsiasi tradizione vitivinicola, un intelligente produttore ci confessò che preferiva vendere i suoi vini in zona e invitare le scolaresche dei centri vicini a visitare la sua azienda. Giustificava questa scelta col dire che intendeva stimolare la partecipazione dei locali alla sua attività, radicare nella gente del luogo la consapevolezza e l’orgoglio di vivere in un territorio dove ora si facevano ottimi vini. In una parola poneva il seme di quel sentimento di appartenenza che è alla base di un processo di tipicizzazione di una terra che prima non produceva vino, in una terra da vino. 

Forse, maglia dopo maglia, bisognerebbe che ognuno, all’interno della rete globale e incurante della sua minaccia totalizzante, tornasse a tessere pazientemente una sua piccola rete. Come da sempre, io penso, hanno lavorato i creatori di nuove tradizioni. 

Firenze, 2000