L'antigastronomo

Medioevo in cucina

Johan Huizinga, nel suo famoso saggio L’autunno del Medioevo, fa del Rinascimento il frutto autunnale (appunto) di un Medioevo giunto alla sua piena maturità nel XV secolo. Dopo il Rinascimento, meglio, dopo la caduta dei valori dell’Umanesimo, noi moderni abbiamo iniziato a pensare la vita, alla nostra vita individuale, in termini soggettivi, vale a dire a costruirne il senso soggettivamente.

Questo credo sia il motivo principale, direi strutturale, della difficoltà che noi troviamo (da contemporanei) a comprendere il Medioevo, a ragionare come un uomo del Medioevo. Perché il momento fondatore della modernità, sotto l’aspetto dell’evoluzione del pensiero, sta proprio in questa soggettivazione del mondo, nell’acquisire cioè un’esperienza individuale del mondo, una visione della vita e di noi stessi (come individui), prendendo coscienza della nostra finitezza e della durata del tempo che c’è stato dato per vivere. 

Nel Medioevo il senso della vita, come quello della morte era collettivo (si pensi alle danze macabre) dal momento che anche il destino oltremondano degli individui, come ogni aspetto della vita sociale era informato da una concezione fortemente gerarchica della società.

Nessuna meraviglia dunque se anche per quanto riguardava l’alimentazione e il cibo esistesse una rigida gerarchia, dei veri e propri regimi a seconda della condizione sociale di ognuno. Il cibo come le bevande (il vino) vengono scelte e indicate in funzione dell’appartenenza sociale, dell’attività svolta, dell’età e della costituzione fisica. 

Le conoscenze mediche, che s’ispiravano alla teoria degli umori di Galeno, freddo, secco, umido, caldo, in accordo con i quattro elementi aria, terra, acqua, fuoco, destinavano gli alimenti a differenti situazioni e costituzioni. Dietetica e cucina erano e resteranno per lungo tempo unite; si ricordi le prescrizioni contenute nel Regimen Sanitatis dell’XI secolo della scuola medica di Salerno, già antica nell’846 d.C. 

C’era dunque il cibo del potente – signore, guerriero, ecclesiastico – e quello del mercante e del popolo avviato ad essere borghesia, e infine quello del popolino e del servo della gleba. Il tempo era scandito dai mattutini e dal vespro, dalle campane della chiesa dei borghi e non ancora dall’orologio del palazzo comunale. Era dunque il tempo religioso che, con l’alternanza di periodi di grasso e di magro (per quasi 150 giorni l’anno) dell’anno liturgico, stabiliva un ordine, dava un ritmo al regime alimentare. Oltre naturalmente ad essere legato al trascorrere delle stagioni, c’era il cibo della festa e il cibo della quaresima.

Bisogna tuttavia sgomberare la mente da idee preconcette su una cucina medievale rozza, fatta di animali arrostiti interi e vini grossolani tracannati in una sorta di perenne gozzoviglia. Pensare a una cucina dove l’uso eccessivo delle spezie era motivato unicamente da ragioni di conservazione degli alimenti, o vedere la pratica delle cotture multiple (prima lessare poi friggere o arrostire) come un mezzo necessario a domare carni tigliose o ortaggi troppo duri. Bisogna invece sforzarsi di vedere queste come vere e proprie innovazioni tecniche di una cucina finalizzata alla realizzazione di gusti comunque diversi dai nostri.

Ogni epoca elabora un suo gusto gastronomico, quello che potremmo chiamare un comune senso del gusto, per meglio dire un modello epocale di gusto, che tende a riprodurre in ogni formula cucinaria. 

Nel Medioevo questo modello è il gusto agrodolce, di cui l’agresto, la salsa base ricavata dagli acini d’uva acerba, è la preparazione più esemplare. 

Un tratto caratterizzante, specifico è poi quello rappresentato dalla presenza dominante dell’uso delle spezie che, per la loro rarità e costo, tornavano a marcare la gerarchia sociale dei gusti gastronomici, si veda ad esempio la nascita del panforte. 

Altra importante caratteristica del gusto medievale è l’indifferenza per la distinzione che noi modernamente facciamo fra dolce e salato, nei quali identifichiamo due categorie gastronomicamente distinte. Lo zucchero, considerato anch’esso alla stregua di una spezia, veniva spesso utilizzato nel condimento di rifinitura dei piatti prima del servizio; polverizzato a pioggia come facciamo noi oggi con il parmigiano, per dire.

È difficile per noi immaginare una cucina senza patata, pomodoro, caffè, mais, peperoncino, fagioli, arance (dolci) e dominata dalle spezie: zafferano, pepe, ginger, cannella, chiodo di garofano, grani del paradiso (melegueta o pepe di Guinea). Ma non dimentichiamo che nel Medioevo, oltre a una maggiore varietà di erbe commestibili e di cereali minori oggi scomparsi dall’uso, si diffondono le paste asciutte, la cui fabbricazione era stata introdotta dagli arabi in Sicilia, il riso, e si mettono a punto molte pratiche cucinarie che porteranno alla grande cucina rinascimentale.

La cucina medievale è una cucina molto attenta all’estetica e all’armonia dei colori dei cibi. È una cucina colorata. Ci sono salse verdi (spinaci, bietole, prezzemolo, basilico), celesti (polpa di more), camelline (pane abbrustolito, cannella), gialle (zafferano), pavonazze (con succo d’uva nera), nere come la salsa saracena fatta di prugne, fegatini di pollo, pane abbrustolito, ma anche rosa e rosse utilizzando coloranti artificiali ricavati da legni e radici.

Per quanto poi riguarda le maniere di tavola e di servizio, è durante il Medioevo, che l’arte della tavola diventa una forma essenziale della civiltà urbana, basti pensare agli ammaestramenti in proposito contenuti nel Tesoretto di messer Brunetto Latini, posto poi da Dante nel XV canto dell’Inferno fra i sodomiti. 

È in quest’epoca che nascono figure professionali preposte a funzioni specifiche, come lo scalco, il trinciante o il bottigliere, e l’etichetta della tavola. La disposizione dei posti a tavola era rigorosamente preordinata a seconda dell’importanza e del ruolo sociale rivestito dal convitato; ricordiamo l’aneddoto di Dante alla corte di Napoli del Re Roberto. Quello medievale possiamo considerarlo, con termine modernissimo, trendy, un figger food, dal momento che l’uso della forchetta era piuttosto raro e tuttavia già documentato dopo il Mille in città come Venezia, Firenze e Pisa. Già dal Trecento i priori del governo fiorentino ne disponevano di individuali, insieme al coperto e ad una salvietta, quando alla corte francese, a dire di Montaigne, da Enrico III a Luigi XIV, il re Sole, ancora nel Cinquecento la forchetta non era ufficialmente in uso.

La Successione delle portate nel pranzo, prevedeva: frutta acide, brodetto, carni in salsa, arrosto, entremets (piatti dolci e salati), desserte, issue de table (formaggi, frutta secca e candita e dolci leggeri), spezie candite (traggea, coriandolo e zenzero) canditi per favorire la digestione e purificare l’alito; e anche qui a sostenere quest’ordine era la convinzione che lo stomaco fosse una specie di pentola dove avveniva la concozione degli alimenti. C’è un pane per la “mensa”, che serviva per appoggiare i cibi, come su un piatto o un tagliere, e un pane bianco per accompagnare il cibo dove prevaleva la mollica.

La cucina poi, intesa come ambiente per la preparazione delle vivande, era un lusso delle case signorili, mentre per la stragrande maggioranza della popolazione era un camino aperto che forniva braci e piani rustici di cottura. Forni per cottura del pane o di preparazioni in teglia erano spesso di proprietà del signore del posto che imponeva una tassa per il loro uso.

Il problema maggiore nelle cucine – che rimarrà si può dire fin quasi alla fine dell’Ottocento, con l’avvento del gas – e insieme un punto su cui si misurava l’abilità di un cuoco, era di saper dominare (regolare) il fuoco, la fiamma. La cosa peggiore che si potesse dire di una cucina, infatti, era che i piatti sapessero di fumo.

Per quanto riguarda le cotture va detto che non tutte le carni venivano lessate prima di essere fritte o messe allo spiedo. Spesso era una sorta di precottura finalizzata a ripulire e a rendere più compatta la carne o ad estrarre l’amaro dalle erbe o a fissarne il colore.

Per legare le salse si usavano la mollica di pane o l’uovo, ma anche i fegatini di pollo la carne di petto di cappone o le mandorle che venivano ridotte in polvere e passate nella stamigna (colino fine). Il risultato era dal punto di vista tecnico estremamente raffinato e portava a salse fini e omogenee anche senza l’uso, che diverrà comune in seguito, di farina e burro nei roux.

Fra i grassi di condimento a trionfare è il grasso di maiale in tutte le sue forme (lardo, lardo fresco, lardo salato, strutto, lardone). L’olio di oliva di noce o di papavero era usato per condire le insalate o per rare fritture di pesci e nei giorni di magro. 

Insieme con le spezie, fra tutti i frutti, la mandorla occupa un posto importante nella cucina medievale, dove viene impiegata tanto nei piatti salati che nei dolci. È usata come frutto, legante, latte, salsa, pasta, olio, liquido di cottura. E poi è bianca, e nel sistema gastronomico medievale, come abbiamo detto, attentissimo all’estetica dei colori delle preparazioni, il bianco riveste un ruolo emblematico importante.

La cucina medievale è una cucina cosmopolita, a provarlo è l’ammirazione di Maestro Martino per la cucina catalana e per le salse di quella francese, sarebbe vano cercare parentele con quelle nazionali o regionali. Le stesse denominazioni dei piatti (torta francese, torta pisana, zuppa lombarda), che pure si ritrovano nei ricettari non indicano però una pratica culinaria riferibile alla toponimia citata.

Riproporla oggi, renderla contemporanea, può rappresentare un esercizio giocoso, un onesto piacere, ma, a iniziare dalle ragioni di ordine “mentale”, di visone del mondo a cui abbiamo accennato in apertura, nessuno deve credere di ricreare per questo i sapori e gli aromi e le consistenze del tempo, come dire, in maniera filologicamente esatta. 

Le fonti di calore utilizzate per la cottura ed i suoi procedimenti, il materiale e la forma dei contenitori usati, la qualità dei cibi (verdure, ortaggi, frutta) che usiamo oggi, che sono il prodotto di una lunga teoria di selezioni varietali, infine le dosi e i tempi, comunque tradiscono, nell’operazione di adattamento al gusto contemporaneo, le formule originali che restano irrealizzabili. Pensate solo alla differenza importante, sotto l’aspetto organolettico, che può esserci tra il frullare moderno o anche soltanto il tritare o il pestare nel mortaio, tra il cuocere fra i testi di terracotta (con fuoco sotto e fuoco sopra) o nella brace spenta, e nel moderno forno elettrico o a gas di casa nostra. Per tacere, infine, che i nostri antenati non si facevano alcuna preoccupazione di sposare i vini con i cibi, come con molta “scienza” viene fatto oggi.


Le fonti:
Liber de coquina di Anonimo meridionale d’epoca angioina (primi del ‘300)
Libro della cocina di Anonimo Toscano della Biblioteca Universitaria di Bologna, databile ai primi del ‘400 (edito da Francesco Zambrini nel 1863) che per alcuni studiosi sembra si rifaccia al testo meridionale e ad altri due trattati lacunosi ripresi in Ricette d’un libro di cucina del buon secolo della lingua (edito da Salomone Morpurgo, Bologna 1890 e nel Frammento di un libro di cucina del secolo XIV (edito da Olindo Guerrini nel 1887)
Libro per cuoco di Anonimo veneziano, di fine ‘400 (ripreso da Ludovico Frati in Libro di cucina del XIV secolo, nel 1899)
Due libri di cucina di Anonimo meridionale (dei primi del ‘400)
Libro de arte coquinaria di Maestro Martino da Como, cuoco operante a Roma al servizio del patriarca di Aquileia (seconda metà del ‘400)
De honesta voluptate et valetudine di Bartolomeo Platina (a cui dobbiamo l’elaborazione umanistica dell’arte della cucina, 1474. Prima edizione in volgare 1478)
Summa lacticiniorum di Pantaleone da Confienza (1477)

Giuseppe Lo Russo, Firenze, 2002