L'antigastronomo

Tipico

La condizione ineludibile e fondante dell’aspetto edonistico della degustazione del prodotto tipico è la sua riconoscibilità. Essa si realizza con il concorso di tutte le nostre facoltà sensoriali e cognitive, e dunque affettive e culturali; qualcosa di avvicinabile a quelli che il citatissimo Brillat-Savarin chiamava “provini gastronomici”, e che definiva come preparazioni dal sapore ben conosciuto, la cui squisitezza fosse tale da commuovere, in un uomo ben costruito, tutte le facoltà assaggiatrici

Dunque, è l’azione del riconoscere a premiare il degustatore sotto l’aspetto sensoriale e psicologico, e a lusingarlo sul piano più generalmente intellettuale, convincendolo di un’appropriazione piena di ciò che mangia. E cosa c’è alla fine di più gradito del riconoscimento di qualcosa di familiare? 

Ogni alimento, liquido o solido che sia, è indicatore di un’area di produzione determinata che tutti noi amiamo supporre originaria. Le differenti modalità di preparazione e di consumo vengono vissute individualmente come fattori peculiari di identità e, quando condivise con altri, diventano uno strumento per segnare o vantare collettivamente la propria diversità su comunità e popolazioni con differenti abitudini e stili alimentari.

Per questo i greci potevano dare di barbari ai bevitori di latte, i romani a quelli che al vino preferivano la birra e il cavalier Benito Mussolini proclamare che “Chi parla del vino parla della civiltà della razza bianca”.

Con l’esotismo di massa contemporaneo, cioè con la possibilità che oggi c’è data di consumare (e produrre) qualunque alimento quasi dovunque e in qualunque stagione, questi fattori dovrebbero aver perso molto della loro forza discriminante. Invece no, perché dietro ogni cibo o bevanda continua ad agire un modello culturale, un sistema di sapere idealizzato che sentiamo nostro e di cui temiamo la perdita; dunque l’arrivo di un prodotto o di un modello “altro”, esotico, continua a produrre in noi fenomeni di spaesamento, e l’innovazione la guardiamo sempre come una rivoluzione, un sovvertimento di quei valori, una minaccia al nostro senso d’identità e di appartenenza. Noi non sappiamo più chi siamo e la nostra casa non ci sembra essere più la nostra casa.

A difesa di questo patrimonio, quelli per loro conto già insicuri della propria identità tornano a trincerarsi dietro i muri della tradizione, che intendono come mantenimento di quell’origine e di quegli usi. Tutto questo con buona pace degli studiosi che hanno decretato che la storia come luogo di produzione dell’origine è una mistificazione, e che la tradizione altro non è che il frutto più o meno duraturo, ma sempre provvisorio, di una innovazione.

Sotto questo aspetto potremmo azzardare una definizione del tipico come: 

un prodotto o una preparazione che, in un determinato momento storico, presenta un più alto grado di riconoscibilità e apprezzamento da parte di una comunità di individui concordi nell’attribuire caratteri propri di “tipicità” a un determinato quadro organolettico riconosciuto in quel prodotto o in quella preparazione.

Giuseppe Lo Russo |