L'antigastronomo

Golosi, gastronomi e critici

Fossi una ditta e avessi bottega, sull’insegna a buon diritto potrei far seguire all’inutile qualifica di giornalista quella di “gastronomo sin dal 1948”. Uno scherzo? Niente affatto, il 1948 è il mio anno di nascita, ed essendo ancora in vita posso vantare come titolo abilitante all’esercizio della “professione” un’esperienza in fatto di mangiare e bere di un buon mezzo secolo! 

Ragioniamo: in cosa si differenzia un goloso, un comune mortale appassionato di cibi e bevande, da un gastronomo? In nulla. E ve lo dimostro.

Come opera il gastronomo? Quale la sua competenza, i suoi strumenti interpretativi, il suo metro di giudizio? E la natura del suo atto degustativo? 

Risposta: il gastronomo opera con gli strumenti in dotazione ad ogni comune mortale, cioè naso e palato, per dire; la sua competenza gli viene dalle molte occasioni di mangiare e bere, incomparabilmente più numerose di quante ne possano capitare ad un comune goloso – tutta esperienza sul campo, cioè di tavola! Infine, la natura del suo atto degustativo, che è poi quella del suo giudizio, è rigorosamente e indisputabilmente soggettiva. 

In buona sostanza, tutto l’impegno che il nostro primo degustatore mette nell’assaggio, alla fine si esprime attraverso un giudizio soggettivo e perciò stesso insindacabile. Questa schietta dichiarazione di gradimento personale si manifesta con l’utilizzo di categorie assai povere e popolari: questa cucina (vino, piatto, prodotto alimentare) mi piace/non mi piace; questo è buono/ questo non è buono. 

Insomma, i lettori attenti, e da motivare nelle scelte, non hanno che da affidarsi ai giudizi di un goloso, il quale, e qui sta la differenza, invece di raccontare le sue esperienze degustative ad un pubblico ristretto di amici e conoscenti, in ufficio, al bar o nel salotto di casa, ne scrive su giornali e riviste, facendosi passare per un palato più fino e un naso più allenato di qualunque altro appassionato della materia. E non finisce qui, perché, ogni gastronomo, autopromuovendosi esperto, si arroga il ruolo di maestro di buongusto, prescrivendo o proscrivendo cibi e bevande, magari in complicità o in competizione con altri gastronomi. 

Ora, se tutti leggiamo lo stesso testo, ammiriamo lo stesso quadro, la stessa scultura, per ognuna di queste espressioni artistiche, esiste una figura professionale, il critico, che sottopone alla propria competenza e ragione quanto è stato capace di rilevare dallo studio dell’opera, al fine di determinare certe sue caratteristiche peculiari, riconoscerne una qualche unità di stile, una maniera, una mano, e una volta che l’abbia ben comprese, è sempre il critico che, lasciando da parte le sue personali predilezioni, riesce a descrivere e a comunicare agli assenti, quali siano queste peculiarità e come l’autore ha operato per arrivare ad esprimerle. 

Questa figura professionale, che esiste in ogni settore delle innumerevoli attività umane, ancora tarda ad apparire in quello della cultura del mangiare e bere, dove i gastronomi, in assenza di un qualunque metodo o chiave interpretativa del fenomeno gastronomia e cucina, si esprimono allo stesso modo dei comuni ghiottoni che difendono le proprie preferenze in fatto di cibo e bevande. 

Perché allora, cari amici golosi, divoratori di stelle, soli, quattroforchette, cappelli, canguri e trebicchieri, gastroenoturisti tutto incluso per aree DOC e DOCG nel mondo, dovreste affidarvi ai giudizi di un naso e di un palato che non è il vostro? Per quale sorta di orfanismo o senso di inadeguatezza sentite il bisogno di padri-maestri a cui delegare la scelta di quello che vi dà piacere nel nutrirvi? Non è forse meglio accapigliarsi in tanti, come accade nei bar di paese sulla formazione della squadra del cuore dove ognuno vanta forte la propria come migliore, piuttosto che seguire un guru qualunque che vi suggerisce il miglior boccone e il miglior bicchiere? Se fossi quel Carlo V che regalava titoli nobiliari a chiunque, facendo todos caballeros, ecco, io vi farei tutti gastronomi. E così sia.

Giuseppe Lo Russo, 1998