L'antigastronomo

Il doppio paradosso del gastronomo

Non siamo di quelli che pensano che la qualità del moderno sia tutta cattiva; né che in epoca di globalizzazione di merci e consumi il futuro della produzione alimentare e della cucina della penisola (e del mondo intero) sia così nero come ce lo descrivono. Non crediamo infine che il giudizio della quasi totalità del mondo dell’enogastronomia sugli effetti nefasti della globalizzazione sia sensato. Dunque s’impone di tornare a parlarne; dal momento che questa benedetta globalizzazione non smette di essere agitata come uno spauracchio, un babau d’inizio millennio, costringendoci a ripensare e a ridefinire il concetto d’identità legata al cibo e alle sue preparazioni. 

Come ci si salva dalla marea omogeneizzante promossa dai poteri forti, dagli interessi delle grandi multinazionali dell’agroalimentare? 

Il quesito come si possa salvare la propria individualità, trasmettere la propria diversità in un regime d’uguaglianza planetaria, ha trovato finora una risposta emotiva e viscerale: legare il mangiare ai prodotti tipici del territorio, difendere e conservare gli usi tradizionali locali che marcano l’appartenenza di ognuno ad un luogo, un paese, una nazione. Di qui l’alluvione nostalgica cui siamo sottoposti di reperti di archeologia ortofrutticola, di santi contadini eroici e ostinati nell’allevare mucche e porcelli in valli sperdute, di care anziane donnine col pollo ruspante nell’aia familiare. Di qui anche le note di demerito che le guide distribuiscono a molti ristoratori, impegnati a fare una buona e spesso ottima cucina, prescindendo dalle ricottelle del pastore locale.

In verità, gli alimenti che noi tutti siamo destinati a condividere in un universo di mercato globale, senza cessare d’essere anche i nostri, possono trovare un’espressione unica all’interno dei nostri modi peculiari di mangiare e di far da mangiare. Sulla traducibilità ed elaborazione originale di prodotti ed usi esotici, basterà ricordare come il pomodoro venuto dal Nuovo Mondo e ancora prima la pasta asciutta, dono degli Arabi ai siciliani, abbiano trovato una loro espressione caratteristica nel ridefinire, ad esempio, le abitudini alimentari dei napoletani, passati da mangiafoglia a mangiamaccheroni. E lo stesso potrebbe dirsi del mais, del riso e di altri alimenti tipici della nostra cucina tradizionale.

L’uomo, in quanto onnivoro, ha un programma assolutamente aperto rispetto alle scelte alimentari, e dunque una gran varietà di gusti e comportamenti. Questa “programmazione aperta” rappresenta un importante valore di sopravvivenza per la specie ed è motivo anche del nostro primato sulle altre, necessitate a nutrirsi di una sola varietà di cibo. 

Tuttavia, nonostante la vantata plasticità e variabilità umana in fatto di preferenze alimentari, la neofobia, il terrore del nuovo, è una caratteristica tipica del comportamento alimentare degli onnivori. Il fatto può sembrare paradossale, ma si spiega considerando che fin da cucciolo l’uomo impara non a diversificare la propria alimentazione, bensì a strutturarla, ad operare cioè delle scelte. In altri termini impara a governare la propria natura di onnivoro attraverso uno strumento tutto umano: la cultura.

È evidente allora che quanto più strette si fanno le maglie in cui si strutturano queste scelte – quanto più è ristretto l’orizzonte culturale individuale – tanto maggiore è il grado di intolleranza verso l’accoglimento del nuovo, del cambiamento. Così, il paradosso dell’onnivoro si trasferisce al gastronomo, per diventare un doppio paradosso. Non è forse a lui che chiederemmo di interpretare e farci conoscere il nuovo? E invece quello, terrorizzato dal cambiamento, si trasforma in un terrorista che proscrive, lancia appelli di condanna e invita alla restaurazione.

La cucina tuttavia è per sua natura un luogo di contaminazione e di scambi. La sua stessa evoluzione dipende da un regime di circolazione delle materie e degli usi, e non le si fa certo un buon servizio difendendo con intolleranza quelli che ci piace pensare siano gli usi “di una volta”. Di più, la cucina non nasce nell’isolamento idillico delle campagne, ma nei traffici affollati dei centri urbani, lì dove appunto i prodotti ricevono visibilità e circolano attraverso i mercati. Non siamo noi ad affermarlo ma Massimo Montanari, uno storico dell’alimentazione che sull’argomento ha scritto di più e con maggiore autorevolezza di chiunque altro. Questa è in sintesi la tesi svolta nell’ultimo saggio che lo studioso ha firmato con Alberto Capatti, La cucina italiana. Storia di una cultura (Laterza 1999): spostare la nozione di identità dal piano della produzione a quello dello scambio. Una tesi che facciamo nostra. 

In chiusura, un aneddoto edificante. Più di un decennio fa, nel mercatino di un piccolo centro del Salento, i contadini del posto vendevano insieme ai pomodori dell’orto anche i loro kiwi (actinidia). Non sappiamo dirvi quanto ha impiegato l’Italia a diventare il secondo produttore di kiwi dopo la Nuova Zelanda, ma restiamo in trepida attesa del momento in cui questo frutto, non più esotico, entrerà – senza meraviglie o condanne – in una preparazione tipica salentina.

Giuseppe Lo Russo | giugno 2000