L'antigastronomo

Ricapitolando

Alimentarsi è una funzione biologica vitale, ma al tempo stesso è una funzione sociale essenziale, e mangiare con piacere assolve alla funzione nutritiva ma anche ad una funzione simbolica. Ognuno di noi, infatti, ha sviluppato dei comportamenti, rispetto agli stimoli provenienti da ciò che è abituato a consumare, che lo rassicurano e lo premiano nel riconoscimento di ciò che sta mangiando e che mettono in moto meccanismi di accettazione, di piacevolezza, o di disgusto e rifiuto.

Il gusto di tutti e quello individuale sono fenomeni multifattoriali. Vale a dire che alla formazione del gusto, e dunque delle preferenze in fatto di cibo, partecipano fattori sia individuali che collettivi: fisiologici, emotivi, culturali, ambientali e così via.

Gli elementi fondamentali del nostro apprezzamento, qualitativo e quantitativo, del cibo, diventano allora: la cultura, l’aspettativa che ci facciamo di quello che andremo a mangiare, le abitudini, l’aspetto esteriore, la pubblicità e le mode. 

Ci siamo mai chiesti cos’è che ci piace mangiare veramente? Se ci piace davvero quello che mangiamo o lo mangiamo solo perché siamo abituati a mangiarlo? E perché un cibo ci piace e un altro no? Perché ci piace preparato in un modo piuttosto che in un altro? Ma poi, quanto ci piace un cibo?

Semplificando: noi troviamo buono ciò che desideriamo, e gustiamo ciò che ci aspettiamo di gustare. Tutto questo accade perché il ruolo più importante nelle scelte e nelle maniere che abbiamo di prendere piacere nell’alimentarci è svolto dal nostro cervello; in altre parole da come vengono tradotti, elaborati e interpretati gli stimoli sensoriali che noi riceviamo dal cibo e che vanno a formare il nostro gusto personale.

Ma mangiare è anche condividere un rito collettivo di relazione, socializzazione e riconoscimento, che nutre e consolida il nostro senso di appartenenza a un luogo a una comunità attraverso alimenti e preparazioni tipiche vissute come identitarie.

Prendere piacere al riconoscimento di quello che mangiamo, dunque, rafforza il nostro senso di identità e di appartenenza a un luogo, a una comunità.

Questo accade perché tutti noi, chi più chi meno, siamo soggetti a confondere la nostra memoria individuale, privata, con quella collettiva, per il desiderio che il nostro mondo rimanga quello che abbiamo conosciuto. Di qui la rivendicazione dell’importanza delle nostre radici. Radici, sì, come fossimo alberi! 

L’antropologo Maurizio Bettini in proposito ha scritto: L’appello alle radici porta solo a confondere la memoria privata con quella collettiva e l’antropologia con la nostalgia

Maurice Halbwachs, pioniere delle ricerche di sociologia della memoria, opera una delimitazione fra il campo della memoria individuale e collettiva e quello della storia: la prima è una corrente di pensiero che vive nella coscienza di un singolo o di un gruppo, mentre all’interno della memoria storica […] non ci si colloca dal punto di vista di nessuno dei gruppi vivi e reali che esistono, o che sono esistiti. In tal senso tutte le storie, anche quelle parziali, mirano a porsi da un punto di vista universale.

La storia si pone come obiettivo quello di acquisire una conoscenza “scientifica” del passato, laddove la memoria collettiva utilizza il ricordo per attribuire un significato al presente, al fine di creare una base per l’identità sociale del gruppo.

La conclusione è che seppure la memoria storica comprende una pluralità di memorie autobiografiche, la memoria di ogni individuo è un elemento fondante – e al tempo stesso un risultato – della memoria storica. Buon appetito.

Giuseppe Lo Russo |

Immagine: La Fruttivendola di Vincenzo Campi – Pinacoteca di Brera – Milano